Zach Cregger è tornato in sala con il suo secondo film, Weapons, una terrificante storia di stregoneria e angoscia sociale: ma cosa c’è dietro le sue narrazioni abilmente costruite su colpi di scena?
E’ un’estate calda e piena di brividi, questa del 2025, grazie alle opere di elevated horror di Cregger e dei fratelli Philippou.
Elevated horror o no, ad ogni modo, non c’è dubbio che il cinema dell’orrore è un cinema politico: è un dato di fatto, scontato e banale addirittura.
L’aspetto interessante è vedere come alcuni autori, nel corso del tempo, rileggono la propria contemporaneità indagando attraverso la lente deformante della paura: per rilevare la percezione di ciò che accade, il momento di reazione, la difesa di ognuno, le prospettive verso il futuro. Insomma, è fondamentale e fortemente indicativo la reattività del tessuto sociale che viene sottoposto ad un pericolo, o ad una determinata circostanza.
È allora che l’organizzazione sociale crolla e i legami vengono messi alla prova, attraverso prima la disgregazione di ogni circuito sociale e poi con la ricomposizione di aggregati micro-sociali.
Una lenta e inesorabile discesa verso il buio
Cregger è un autore che conosce bene il genere, e per il suo esordio alla regia pesca a piene mani da 40 anni di storia cinefila, rielabora le regole non scritte dell’horror e inizia a giocare con chi guarda, con le aspettative che crea e con il già visto, che rielabora felicemente e con guizzi geniali.
Nel 2022 esce Barbarian, che non è paragonabile a nulla di conosciuto: perché ha la struttura di un tesseratto che ruota all’interno dello spazio quadrimensionale.
Ampliando la sua struttura interna e lasciando inalterata quella interna, il film opera continui stravolgimenti dei canoni narrativi, anche a costo di trasformarsi in più film in uno, ma restituendo un’operazione ricca e vivida come poche altre nel panorama contemporaneo, che si lascia leggere su più testi rimanendo ugualmente affascinante sia dal punto di ista politico e sociale sia da quello cinefilo. Dimostrando quanto l’horror sia ancora oggi capace di riflessioni lucide e stringenti.
dal film Barbarian, di Zach Cregger, 2022
La paura che interessa a Cregger con Barbarian è quella stratificata, che ingloba dentro le componenti culturali e i retaggi identitari di ogni società: infatti la prima parte, con uomo e donna messi a confronto nella fiducia l’uno dell’altro rimanda ad un’analisi sui retaggi dietro la forma e la sostanza.
Siamo tutti barbari
Senza dovere svelare nulla del seguito, da qui in poi la visione e le metafore si allargano come cerchi nell’acqua: e passano dal confronto individuale ad una dimensione più estesa, approfondendo lo sguardo sulla cittadina di Brightmoor, il sobborgo più degradato di Detroit.
BARBARIAN È UN VIAGGIO, UN SENTIERO CHE PARTE DALL’AMERICA REAGANIANA E ARRIVA FINO AL FONDO DEL TUNNEL PIÙ OSCURO DI OGGI
Sprofondando il film in un incubo terrificante dove tutto è sinonimo di una sconvolgente caduta sociale, dove il dolore e la miseria producono solo altro orrore e sono figlie di una politica che ha investito nelle modalità sbagliate, abbagliando con un nuovo sogno americano tirato a lucido ma così accecante da far cadere la popolazione operaia in una trappola.
Come conseguenza di tutto questo, l’opera di Cregger corre su binari sempre più veloci fino ad assumere, nell’ultima parte, una velocità folle di esecuzione mista ad una follia di impulsi barbari, sfilacciando non solo la narrazione ma anche la struttura dell’orrore. E’ un viaggio, un sentiero che parte dall’America reaganiana e arriva fino in fondo al tunnel più oscuro di oggi, perso in dimensioni frantumate che confermano quello che si sa da sempre: siamo barbari, e lo saremo sempre.
Vittime di guerra
Weapons, che arriva tre anni dopo Barbarian, ricalca in parte la tecnica narrativa del ribaltamento, disseminando la narrazione di tono e detour e inversioni ad U che ridefiniscono il film, e in alcune sequenze riescono a dare un nuovo significato alla parola paura. Una paura che, ancora più e meglio che in Barbarian, sgorga all’improvviso da esplosioni di senso, senza rinunciare a immagini realmente terrificanti.
Weaponsha un’estetica liquida e colora tutto con il pantone politico predominante nell’America di Trump, con la filosofia dell’essere umano come arma più letale: che sia un film più (dichiaratamente) politico rispetto all’esordio di Cregger si capisce dall’inizio, dalla posa in cui corrono i 18 bambini scomparsi fin dalla locandina, posa che richiama ovviamente Kim Phuc, la bambina che nel 1972 era al centro di una delle foto più celebri scattate in Vietnam.
poster di Weapons, di Zach Cregger, 2025
Il secondo film del regista parla di vittime di guerra, perché l’ambientazione guarda ovviamente da vicino alla provincia di Stephen King dove sono i bambini che scappano e fuggono, dal Babau o dalla strega: allora Cregger dirama la storia in mille rivoli e moltiplica i punti di vista, facendo andare avanti e indietro la spola tra il citato King e i Grimm, tra l’orrore del profondo entroterra (presente anche in Barbarian) e quello delle fiabe nere della tradizione.
È in questo modo che dal small town mistery più enigmatico il territorio sfuma e diventa quello surreale del racconto gotico, un mosaico complesso e sconnesso che non rivela tutto e per questo impiglia l’attenzione di chi guarda chiedendo un supplemento in più.
dal film Weapons, di Zach Cregger, 2025
Tutto questo non fa che confermare l’approccio coltissimo del cinema di Cregger, che unisce l’alto e il basso con incredibile disinvoltura grazie ad una cinefilia scorrevole e floridissima, decidendo che quasi ogni inquadratura debba essere un virtuosismo narrativo mai fine a sé stesso, ma sempre funzionale al puzzle totale.
Weapons è comunque un agghiacciante film di paura.
La stratificazione di testo, i rimandi a suggestioni cinefile e sociali, l’attualizzazione di alcune paure e comportamenti di una certa America di oggi, non impediscono a Cregger di restituire un’opera realmente spaventosa, che nella messa in scena lavora sull’assenza costruendoci sopra dei jumpscare non indifferenti ma sempre funzionali a tutta la storia. Ottimi sia Josh Brolin che Julia Garner, che recitano in sottrazione: è anche merito loro se la composizione ad incastro del film non ha nessun increspatura, ma anzi contribuisce a formare un’atmosfera sospesa in attesa del nuovo spavento dietro l’angolo.