Trasporre un’opera come The Sandman era, fin dall’inizio, una sfida ai limiti dell’impossibile. Nata dalla mente visionaria di Neil Gaiman, pubblicata da DC Comics / Vertigo tra la fine degli anni ’80 e gli anni ’90, la saga a fumetti è diventata un cult della narrativa contemporanea, capace di fondere mitologia, psicologia, fantasy e filosofia in un universo onirico unico.
La serie Netflix, co-creata da Allan Heinberg (anche showrunner e sceneggiatore) con lo stesso Gaiman e David S. Goyer alla produzione, ha debuttato con una prima stagione ambiziosa e visivamente sorprendente. Ma è nella seconda stagione, recentemente approdata sulla piattaforma, che The Sandman osa davvero spingersi oltre: scava più a fondo, rallenta il passo, e mette al centro la crisi identitaria del suo protagonista, Morfeo, il Signore dei Sogni.
The Sandman, la Trama
Nella seconda stagione di The Sandman, il Signore del Sogno è chiamato a confrontarsi non con nemici esterni, ma con le crepe interiori che minacciano il suo potere: il passato, la famiglia, le responsabilità che non può più eludere.
Mentre l’equilibrio tra gli Eterni si incrina e nuove forze emergono dall’ombra, Morfeo si trova costretto a ridefinire il significato stesso del suo ruolo. Ogni scelta diventa un bivio, ogni relazione una battaglia silenziosa tra dovere e desiderio.
Tra regni infernali, sogni che si ribellano e legami che sfidano l’eternità, questa stagione scava a fondo nella psiche del suo protagonista, ponendoci la domanda più umana di tutte: possiamo davvero cambiare ciò che siamo destinati a essere?
The Sandman, la Recensione
Immaginiamo di svegliarci nel nostro sogno preferito ma qualcosa è andato storto. Il cielo è troppo scuro, le regole cambiano senza preavviso, e noi siamo lì, spaesati, con il cuore in gola. Ecco: questa è la seconda stagione di The Sandman. Entriamo, e il sogno ci divora.
Morfeo, che Tom Sturridge ci restituisce come una figura ieratica, quasi rituale, non è più il dio invincibile della prima stagione. Qui si muove tra dubbi, ricordi, frammenti di decisioni passate. La sua esistenza è attraversata da una domanda fondamentale: può davvero cambiare ciò che è eterno?
Non è solo un conflitto tra potere e fragilità, ma tra identità e ruolo. Come diceva Kierkegaard, “la più grande malattia dello spirito è voler essere altro da sé”. E Morfeo, in questa stagione, è malato. O forse sta solo guarendo.
Ogni scena in cui gli Eterni si confrontano è, in fondo, una seduta di psicoanalisi cosmica. Non a caso, l’intera struttura della seconda stagione di The Sandman sembra riecheggiare la topografia junghiana della psiche: l’inconscio collettivo si materializza nei regni immaginifici del sogno, mentre gli archetipi interagiscono in forma simbolica per rappresentare conflitti interiori universali.
La seconda stagione di The Sandman è dunque un’analisi psicodrammatica, mascherata da racconto fantasy. E come ogni narrazione che osa spingersi oltre la superficie, richiede attenzione, silenzio, ascolto. Esige una fruizione “lenta”, quasi meditativa. Non ci sono scorciatoie per comprendere i movimenti interiori di Morfeo, le sue esitazioni, le sue trasgressioni alla propria natura.
Questa lentezza non è una debolezza. È una dichiarazione di intenti. La seconda stagione di The Sandman non è una serie. È un esercizio spirituale.
Uno degli aspetti più riusciti di The Sandman è la fotografia: carica, contrastata, mai neutra. Ogni scena è costruita con un’attenzione quasi pittorica, a metà tra Gustav Klimt e Francis Bacon. Gli ambienti non sono solo scenografie: sono proiezioni simboliche. Il palazzo del sogno, ad esempio, non è un luogo, ma uno stato dell’essere. Una forma mentale.
Questa coerenza si riflette anche nei dialoghi. La sceneggiatura della seconda stagione di The Sandman non cerca mai di risultare moderna nel senso effimero del termine. Non rincorre il linguaggio pop per farsi piacere. Anzi, lo rifugge. E in questo trova una forma di autenticità profonda. Le battute sono dense, talvolta volutamente enigmatiche, spesso scolpite in un registro che ricorda più il teatro che la TV.
C’è qualcosa di shakespeariano nella misura dei dialoghi, nella loro verticalità emotiva. Ma non suonano mai posticci. Al contrario, sembrano scaturire con naturalezza da personaggi che abitano pienamente il proprio mito.
Tra i momenti più potenti della seconda stagione di The Sandman c’è il confronto tra Morfeo e Distruzione, di cui Barry Sloane ne restituisce una dolcezza insospettabile. Un dialogo lungo, apparentemente statico, ma straordinariamente vivo. In quel confronto c’è tutto: il senso del dovere, la paura del cambiamento, il bisogno di disobbedire a se stessi per ritrovarsi.
La componente mitologica in The Sandman è trattata con la stessa eleganza. Le divinità che intervengono, da Odino a Lucifero, non sono mai puro folklore. Sono simboli viventi. Ogni apparizione è carica di ambivalenza, mai ridotta a “guest star”.
L’Inferno stesso in The Sandman non è un luogo di punizione, ma una condizione ontologica. Un’eco dantesca attraversa alcune scene, senza mai diventare citazione esplicita. È piuttosto un riferimento culturale che si insinua nel tono, nella composizione, nella lentezza austera con cui si svolgono certe sequenze.
Anche la musica merita attenzione. Le scelte sonore nella seconda stagione di The Sandman sono minimaliste, ma non prive di intensità. Le partiture, spesso costruite su note sospese, contribuiscono a creare un senso di instabilità, di sospensione continua. Non sono lì per emozionare, ma per preparare. Per sostenere la gravità delle immagini. La colonna sonora è, in un certo senso, una contro-narrazione: dice ciò che le parole tacciono.
Alcuni spettatori potrebbero trovare la seconda stagione di The Sandman “lenta” o “difficile”. Ma è una difficoltà salutare. Una sfida narrativa che non si piega alle aspettative del pubblico, ma le riconfigura.
La seconda stagione di The Sandman non è perfetta. Alcuni momenti si perdono. Alcuni episodi potrebbero essere più incisivi. Ma nel complesso, l’esperienza che offre è rara. È uno spazio mentale, più che un prodotto audiovisivo. Uno specchio narrativo che ti mostra non chi sei, ma chi potresti essere se trovassi il coraggio di cambiare davvero.
Morfeo non è solo un Dio del Sogno, è un guerriero che ha perso pezzi di sé. Le sue ferite, i dilemmi, l’esplosione di vulnerabilità rendono ogni sua mossa potente, quasi tangibile. L’identificazione è immediata: chi di noi non ha mai fatto i conti con i fantasmi del passato o con responsabilità troppo grandi da gestire?
Come nella lettura di Joseph Campbell sul monomito, Morfeo non è solo un personaggio: è l’eroe che affronta il ritorno, non più verso il mondo esterno, ma verso se stesso.
Assistiamo così in The Sandman a un racconto che ha il coraggio di sottrarsi alle regole dell’intrattenimento veloce, per riconfigurarsi come una mitopoiesi televisiva in piena regola, un’epopea che attinge dalle strutture originarie della narrazione epica e mitologica per proporre un’allegoria stratificata della condizione umana.
Chi vi si accosta sperando di trovare in Morfeo un supereroe vestito di oscurità rimarrà spiazzato. The Sandman non si prefigge di affascinare tramite azione, battute brillanti o colpi di scena spettacolari.
Mira invece all’interiorità, alla soglia sottile tra inconscio e coscienza, tra mito e memoria, tra responsabilità e volontà. È un’opera che parla agli individui che si interrogano, non a quelli che cercano semplicemente distrazione.
The Sandman non è da consigliare a chi cerca azione e leggerezza. Ma se si sta attraversando un momento di cambiamento, se ci si sente incastrato tra ciò che eri e ciò che si potrebbe essere, questa è la serie da guardare. Con calma. Con attenzione. Con rispetto.
Con un pantheon così vasto, e storie che toccano decine di personaggi, non tutto ha lo stesso peso. Alcuni episodi sembrano “filler”, altri veri colpi al cuore. Va accettato.
Perché vale la pena? Perché The Sandman parla di noi, anche se ambientata in regni ultraterreni. Parla di come affrontiamo le nostre responsabilità. Di quanto siamo disposti a cambiare, a rompere i nostri schemi. Di cosa succede quando, anche se sei potente, il passato bussa alla porta. E ti obbliga a scegliere.
Il suo protagonista, ha già attraversato, nella prima stagione di The Sandman, un cammino che potremmo definire catabatico: imprigionato, smarrito, reintegrato nel proprio ruolo dopo un percorso di discesa e riconquista.
Ma la seconda stagione di The Sandman non è la continuazione naturale di quell’itinerario. È, piuttosto, la sua evoluzione verso l’ambiguità. Se la prima stagione verteva su un impianto pressoché lineare (per quanto sfaccettato), qui si apre il territorio delle ambivalenze, delle lacerazioni, dell’irrisolto.
È emblematica la costruzione della stagione di The Sandman su due blocchi narrativi distinti (e idealmente autonomi), distribuiti in tempi diversi. Un’articolazione in volumi, più che in episodi, quasi a voler dichiarare l’intenzione di proporre non un racconto seriale, bensì una successione di capitoli mitici. Ognuno dei quali introduce un tema e lo esplora per via simbolica, riflessiva, dialogica.
L’elemento che più colpisce, nel procedere della narrazione in The Sandman, è la centralità del tempo come tema latente ma costante. Non il tempo cronologico, ma quello interiore, esistenziale, relazionale. Il tempo che corrompe, che pesa, che plasma le identità, che impone il conflitto tra ciò che siamo e ciò che scegliamo di continuare a essere.
Dal punto di vista stilistico, la regia nella seconda stagione di The Sandman compie un’operazione audace: privilegia il dettaglio alla panoramica, l’inquadratura riflessiva al montaggio serrato. Ne risulta una lentezza apparente che in realtà è contemplazione. Come accade nelle opere pittoriche di matrice simbolista, dove ogni elemento del quadro è carico di rimandi e di ambiguità.
Esteticamente, la seconda stagione di The Sandman mantiene un livello visivo elevatissimo. Le scenografie, le luci, i costumi, ogni elemento è orchestrato per restituire allo spettatore non una visione “realistica”, bensì una percezione onirica. La bellezza non è mai gratuita. È sempre al servizio del simbolismo. E non è mai una bellezza rassicurante. Spesso è disturbante, perturbante, disorientante. Come dev’essere il sogno.
The Sandman non offre risposte. Ma, come ogni grande opera d’arte, ti accompagna fin dove sei disposto a spingerti. Non è un sequel nel senso tradizionale del termine, ma una spirale narrativa che scende più a fondo. Non ci racconta semplicemente cosa accade dopo, ma cosa rimane quando il regno del sogno non basta più a sostenere il peso del presente.
C’è qualcosa di profondamente perturbante nell’esperienza visiva di questa seconda stagione di The Sandman. Non tanto per gli eventi, pure ricchi di simbologia, tensione e dinamiche mitologiche, ma per il tono. La serie cambia passo, come un musicista che, invece di alzare il volume, abbassa il tempo, costringendoci ad ascoltare meglio ogni nota. Ogni silenzio. Ogni ferita.
Morfeo è prigioniero di un ruolo che ha imparato troppo bene. Un dio antico che comincia a domandarsi se il suo potere, creare e custodire i sogni, sia una missione o una condanna. Non ci sono mostri da uccidere. Solo ombre interiori da integrare.
Questa seconda stagione di The Sandman non offre certezze. Non c’è un villain chiaro, non c’è una direzione univoca, non c’è una morale da consegnare. La struttura narrativa è volutamente decentrata. Si apre come un puzzle dove i pezzi non sono disegnati per combaciare perfettamente, ma per suggerire spazi vuoti.
Ci invita a perderci, a smettere di cercare senso immediato.
Perché il sogno, come il simbolo, non spiega. Allude.