Presence, la Recensione del nuovo film di Soderbergh

In sala dal 24 luglio grazie a Lucky Red, arriva Presence, il nuovo film diretto da Steven Soderbergh interamente girato in soggettiva. Ecco la nostra recensione.

Presence, recensione, locandina
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Un momento davvero prolifico, quello di Soderbergh, che ormai dura dal 2017, con almeno un film all’anno. E ora è il turno di Presence, film del 2024 che in Italia uscirà grazie a Lucky Red a partire dal 24 luglio, un paio di mesi dopo il buonissimo Black Bag – Doppio Gioco. Alla sceneggiatura, troviamo sempre l’ottimo David Koepp, fedele collaboratore di grandi registi come Brain De Palma e lo stesso Soderbergh, con cui condivide i suoi ultimi film, tra cui l’interessantissimo Kimi – Qualcuno In Ascolto. A dominare lo schermo troviamo stavolta noi spettatori, dal momento che vivremo questo film come una vera e propria esperienza in prima persona.

Presence, la Trama

C’è un fantasma dentro una casa. Una presenza che sembra quasi benevola, che si limita ad ascoltare e osservare ciò che accade in una famiglia americana. Vicende normali, tra alti e bassi, dove però aleggia lo spettro del lutto, quello della migliore amica di Chloe, scomparsa a seguito di un’overdose e dal quale la ragazza sembra avere difficoltà a riprendersi, anche a causa di un fratello e di una madre non propriamente compresivi. A darle sostegno, suo malgrado, troviamo Chris, suo padre. E questo fantasma, soprattutto.

Presence, la Recensione

L’abilità di Soderbergh di riuscire a indagare i generi che ogni suo film abbraccia è ammirevole al pari della sua voracità artistica, che lo porta a produrre film su film senza mai abbassare l’asticella della qualità. E non di minor importanza, la sua costante ricerca e voglia di sperimentare, di confezionare sempre qualcosa di nuovo, riuscendoci appieno. Basti pensare ad Unsane, un piccolo gioiello cinematografico girato con gli iPhone, o del sopracitato Kimi, dove la pandemia e il lockdown sono veri e propri co-protagonisti.

Con Presence invece, il regista di Atlanta decide di spingersi forse anche oltre ogni concezione cinematografica esistente, girando un fil, internamente in prima persona, che permette allo spettatore di diventarne parte integrante. Chiaro, in passato è successo varie volte. Si pensi al lisergico e psichedelico Enter The Void di Gaspar Noé o anche ad Hardcore Henry, un action divertentissimo che sembra quasi un videogame. Titoli che però hanno una componente a tratti fantasy, a differenza di questo film.

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In Presence infatti la presenza estranea siamo noi spettatori che guardiamo senza essere guardati, che entriamo a far parte di una vita comune di persone comuni. Al netto del finale, decisamente sconvolgente e che pertanto non andremo a rivelare, questa presenza senza nome raramente interagisce mai con i protagonisti. Magari ogni tanto sistema dei libri, o fa cadere un bicchiere con una sostanza non propriamente legale e probabilmente dannosa. Ma è comunque sempre lì, in vigile attesa di qualcosa, con l’orecchio pronto ad ascoltare.

Steven Soderbergh riesce quindi a riscrivere le regole del cinema horror classico, confezionando un film dal comparto visivo curato in maniera maniacale, dove il dramma familiare si mescola al thriller dalle venature orrorifiche e paranormali. Un connubio dosato alla perfezione, dove i generi si mescolano senza soluzioni di continuità. Un film dove il vero protagonista è lo spettatore.

presence 001

La classica quarta parete cinematografica, ossia quello schermo che si trova di fronte ai nostri volti e ai nostri occhi, assume così una valenza differente rispetto a quella a cui siamo stati da sempre abituati. Più che un film, Presence è ascrivibile alla categoria delle esperienze cinematografiche. Un film carico di significati, di teorie cinematografiche (scomodando anche Deleuze), di ricerca visiva che riesce a catturare inevitabilmente il nostro sguardo, fondendolo direttamente con la videocamera del regista. Appare interessante in tal senso aprire anche una finestra di dialogo su quanto l’estetica da videogame abbia una sua valenza nel cinema contemporaneo.

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Il POV, acronimo di Point Of View, unitamente ai tanti piani sequenza di cui il film è composto, ci permettono infatti di diventare un grande unicum col mezzo cinematografico, di metterci sugli stessi piani, semantico ed epistemologico, propri del film e del cinema in generale. Il nostro occhio diventa come un obiettivo, e qui la regia di Soderbergh ci “aiuta“, scegliendo di girare tutto il film con un grandangolo che amplia e dilata lo spazio, permettendoci di vedere tutto in maniera chiara e precisa, dove ogni minima virgola viene notata. Nulla dunque è lasciato al caso.

Lo spazio in cui le vicende si susseguono è solamente uno, una casa fatta di stanze dove si consumano gesti quotidiani: dal dialogo intimo a quello lavorativo, da amplessi giovanili a litigi familiari. Una vita comune che sta per essere brutalmente interrotta da qualcosa, che percepiamo finché poi non si palesa. Ed è qui che la quarta parete trova quindi un nuovo concetto di rottura, fatto da cambio di direzione del genere del film e quindi anche del nostro sguardo, che ci fa uscire dal film e quindi, inevitabilmente, comprenderne la sua bellezza e la sua forza, quella innata che c’è nel cinema.

Presence è più di un semplice film, è un’esperienza visiva. Un’esperienza visiva che tutti dovrebbero almeno provare almeno una volta e che consacra il genio di un regista come Steven Soderbergh, capace di regalare sempre qualcosa di nuovo alla Settima Arte, pur con alti e bassi, ma dove l’asticella della qualità raramente scende sotto la sufficienza. Asticella che in questo caso si trova davvero molto in alto.

Cast

  • Callina Lang: Chloe
  • Lucy Liu: Rebecca
  • Chris Sullivan: Chris
  • Eddy Maday: Tyler
  • West Mulholland: Ryan

Trailer

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