Squid Game 3: Recensione della degna conclusione di una delle migliori serie di sempre

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Così si chiude la grande avventura di Squid Game: una serie epica e traumatica che ci ha insegnato a guardare il mondo con occhio più critico, ma senza mai perdere la speranza – pure nella disperazione

Per chi temeva che la terza stagione di Squid Game fosse deludente rispetto alle prime due, tranquillizzatevi: nei sei episodi di chiusura della serie cult coreana, usciti tutti insieme il 27 giugno 2025, non mancano i colpi di scena, le sorprese e sì, la violenza. La formula è la stessa che ha funzionato fin qui, e continua a funzionare.

Non vi diciamo che ne è del nostro Seong Gi-hun, chi vince questa edizione o come va a finire per gli altri comprimari – il poliziotto in cerca di suo fratello (che è il Frontman), la ragazza che assume il ruolo della guardia 11 – e del resto se siete qui probabilmente lo sapete già. Parliamo invece di quello che questa serie ci ha portato e ci ha lasciato, specialmente ora che è finita.

Come specchio delle contraddizioni della civiltà occidentale e degli spietati meccanismi competitivi che compongono la logica capitalista, Squid Game è sempre stata ampiamente critica e anche nella sua conclusione non risparmia un’aspra e amara constatazione di come funzionano quei giochi di potere nei quali a perdere sono sempre i poveri, i deboli, gli onesti.

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Anche le tre nuove competizioni di questa stagione finale sono infatti pensati per incitare tradimenti, ipocrisie, venalità: i ricchi V.I.P. assistono lieti mentre i “cavalli” su cui puntano abbandonano ogni sprazzo di umanità, chi prima chi dopo, con il simbolo del dollaro (o meglio, del won) che risplende nei loro occhi, accecandoli.

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E tra chi non cede tanto facilmente non mancano le vittime, tra altri momenti traumatici e morti improvvise – anche di parecchi beniamini di questa nuova edizione – in una ennesima lotta all’ultimo sangue che non risparmia colpi di scena terrificanti. Insomma, tutto quel che c’era di buono nella prima e nella seconda stagione qui non manca, e va bene così.

La potenza di Squid Game come serie socialmente attenta ma anche come appassionante e grottesco reality rimane quindi intatta, e ci fa sollevare molte domande e dubbi su come la società funziona e su come dovrebbe funzionare. Il paradosso finale, il fatto che la guardiamo su un colosso streaming multi-milionario come Netflix, rende il messaggio anche migliore.

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E come ci lascia? Con l’amaro in bocca, certo, ma anche con un barlume di speranza, perché non tutti sono così cattivi, non tutto va sempre così male, e la fine non sembra mai davvero la fine. Diversi personaggi trovano la loro possibilità di redenzione, o di una nuova vita, e per chi non ci riesce è chiaro che nel mondo tutti quanti sono “player”, non solo quelli che indossano divise numerate.

Se quindi la morale dell’opera di Hwang Dong-hyuk ritrova l’individuo impotente di fronte alle malefiche sfaccettature del potere, in Squid Game ci viene anche insegnato che non è mai detta l’ultima parola, che c’è sempre una occasione per rialzare la testa e che se i cattivi vincono lo fanno solo fino a un certo punto.

Il messaggio di Squid Game ancora una volta passa intatto, tra lacrime, risate, spaventi e tensione, chiudendo degnamente quella che si può già includere nell’elenco delle migliori serie televisive di sempre.

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RECENSIONE
VOTO:
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Andrea Campana
Scrivo di musica, cultura, arte, spettacolo e cinema. Ho pubblicato su SentireAscoltare, OndaRock, Cinergie, Digressioni, Radio Càos, Rock and Metal in My Blood.
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