Paternal Leave, opera prima della regista tedesca Alissa Jung, è un film che si avvicina allo spettatore in punta di piedi, sfiora la pelle con una delicatezza inaspettata e rimane lì, sospeso tra respiro e silenzio, insinuandosi timidamente come la luce polverosa del primo mattino che penetra da una finestra socchiusa.
Paternal Leave è una tela intessuta di attimi rubati alla frenesia: ogni scena è come un filo d’ambra che imprigiona l’essenza sfuggente del quotidiano.
Con uno sguardo pudico e sincero, Alissa Jung ci invita ad abitare il tempo, a riscoprire la bellezza nascosta nei gesti quotidiani e nelle pause.
E proprio per questo Paternal Leave riesce, seppure con qualche passo esitante, a lasciare un’impronta emotiva significativa.
Paternal Leave, la Trama
In un angolo quieto e brumoso della Riviera Romagnola, tra le dune solitarie di una spiaggia d’inverno, si dipana il racconto di Paternal Leave, che intreccia due solitudini in cerca di riconoscimento.
Leo, quindicenne tedesca dal cuore ribelle e dalla voce ancora incerta della giovane età, fugge da un’infanzia spezzata per ritrovare l’eco silenzioso di un padre mai conosciuto.
Quel padre è Paolo (interpretato da un intenso Luca Marinelli), ex surfista dalle mani ruvide e lo sguardo sfuggente, oggi confinato a una vita monotona dietro un chiosco abbandonato al vento.
Il loro incontro, inizialmente acerbo e urticante, si trasforma lentamente in un dialogo fatto di esitazioni e gesti trattenuti. Mentre la distanza tra le loro anime si assottiglia, Paternal Leave esplora con delicatezza il tema dell’abbandono, del perdono e del bisogno viscerale di appartenenza.
Paternal Leave, la Recensione
In Paternal Leave, Alissa Jung si affida a inquadrature fisse, piani sequenza e un uso sapiente della luce naturale per raccontare il tempo che scorre, lento ma inesorabile, tra le mura domestiche.
Luca Marinelli si muove sulla scena come un uomo in esilio dal proprio passato. Paolo è un personaggio segnato dal fallimento, e l’attore ne fa un’espressione viva del rimorso sedimentato nel tempo.
Una sospensione emotiva a metà strada tra l’accettazione e il rifiuto della realtà, capace di regalare al personaggio un’aura dolente ma mai patetica.
Luca Marinelli in Paternal Leave lavora sul principio della sottrazione, interpretando Paolo più attraverso ciò che trattiene che ciò che esprime. La sua voce incerta sembra accompagnare lo spettatore come un’eco di qualcosa che si è perso troppo tempo fa.
Eppure, dietro la scorza dell’uomo frammentato, l’attore costruisce una tensione emotiva che lo rende vulnerabile, autentico, a tratti persino tenero.
I suoi gesti misurati e i lunghi silenzi compongono una partitura interiore che accompagna tutta la narrazione di Paternal Leave.
Il suo sguardo sfocato come un paesaggio visto attraverso un vetro bagnato, ci restituisce l’immagine di un uomo che non sa più come si ama, ma tenta, maldestramente, di imparare.
Accanto a lui, la giovane Juli Grabenhenrich nel ruolo di Leo è una rivelazione. In Paternal Leave il suo approccio istintivo, diretto, quasi animalesco, dà vita a una figura di adolescente che sfugge ai cliché.
Leo è ruvida, talvolta irritante, ma proprio per questo autentica. Non urla mai il suo dolore, lo incarna con una fisicità spigolosa, con uno sguardo che spesso cerca l’orizzonte, come se la risposta a ogni domanda fosse sempre un po’ più in là.
Juli Grabenhenrich dosa con sapienza rabbia e vulnerabilità, e il suo modo di stare in scena, spesso sul filo tra lo scontro e la ricerca di contatto, conferisce a Paternal Leave una tensione costante, ma mai eccessiva.
Il suo volto, ancora acerbo ma già segnato da un’urgenza espressiva profonda, diventa la tela su cui Paternal Leave dipinge il senso di abbandono, la rabbia muta, il bisogno di affetto.
Il suo modo di ascoltare Luca Marinelli in scena è già recitazione: la ragazza reagisce agli scarti emotivi del padre con una sensibilità che raramente si vede in attrici tanto giovani.
È come se il suo corpo fosse costantemente in stato di veglia, pronto a difendersi ma anche (e qui sta la bellezza) pronto a cedere.
In Paternal Leave, quando i due attori sono in scena insieme, accade qualcosa di profondamente cinematografico: non recitano, dialogano con le loro ombre. Non c’è forzatura né retorica, solo un continuo giro di valzer tra chi cerca di riavvicinarsi e chi teme di lasciarsi andare.
La regia di Alissa Jung asseconda questa danza permettendo ai due di riempire il vuoto con gesti arginati, con respiri che si rincorrono.
Il linguaggio cinematografico adottato da Alissa Jung per Paternal Leave trova echi significativi in autori che hanno fatto del riserbo e della quotidianità la loro cifra distintiva.
Il primo nome che viene alla mente è quello di Krzysztof Kieslowski, per la capacità di raccontare l’intimità e il silenzio come momenti di rivelazione. Ma anche Lynne Ramsay, per la centralità del corpo, dell’infanzia e del tempo interiore, e Hirokazu Kore’eda, maestro indiscusso del ritratto familiare sobrio e poetico.
Alissa Jung attinge da questa scuola estetica senza mai cadere nella pedanteria o nell’imitazione. Il suo è un omaggio discreto ma consapevole, che si traduce in un’opera personale e coerente, capace di trasmettere empatia senza forzature.
Il climax in Paternal Leave non arriva mai in modo convenzionale, non c’è una catarsi gridata. Luca Marinelli e Juli Grabenhenrich riescono nell’impresa più difficile: rendere visibile l’invisibile.
La trama non presenta colpi di scena eclatanti né strutture diegetiche articolate. Questo approccio conferisce a Paternal Leave un tono contemplativo e al contempo realistico, ma rischia talvolta di cedere alla monotonia, soprattutto nella sua parte centrale.
Paternal Leave non è un film perfetto. La sua laconicità può scoraggiare, la ripetitività rischia di affaticare, alcune scelte registiche sono forse troppo timide per incidere davvero.
Paternal Leave chiede molto allo spettatore in termini di attenzione e disponibilità emotiva, e non tutti saranno disposti a seguirlo in questo cammino introspettivo così dilatato e silenzioso.
Il mancato dinamismo in Paternal Leave, che per alcuni sarà meditazione, per altri diventerà staticità. La sobrietà, che può essere eleganza, rischia di essere percepita come impoverimento.
C’è però indubbiamente un atto quasi politico in questa narrazione senza clamori, che restituisce dignità emotiva alla figura paterna, spesso trascurata o caricata di ruoli secondari.
Nel volto scavato e negli occhi incerti di Paolo, Luca Marinelli disegna una figura paterna priva di ogni eroismo. Non c’è idealizzazione né redenzione facile.
Il suo personaggio in Paternal Leave è un uomo qualsiasi, fuggito dalla responsabilità per paura, forse per incapacità, che si ritrova costretto a fare i conti con ciò che ha lasciato indietro. Paolo non è il padre che torna per salvare, è il padre che impara a chiedere perdono con goffi tentativi.
In Paternal Leave la sua paternità si costruisce nello spazio fra due solitudini: quella dell’uomo che ha smesso di credere in sé stesso, e quella della ragazza che cerca disperatamente qualcuno in cui riflettersi.
Luca Marinelli e Juli Grabenhenrich si offrono l’uno all’altra come due emisferi che si sfiorano senza integrarsi. Non c’è fusione, non c’è simmetria, ma una coreografia disarticolata e sincera fatta di esitazioni, di piccoli avvicinamenti, di ritrosie emotive che si sciolgono lentamente.
Ecco dunque che Paternal Leave divide: lo si ama o lo si abbandona, ma difficilmente lo si ignora. E quando lo schermo si spegne, ci si accorge che qualcosa dentro è cambiato: forse una memoria, forse un desiderio, forse solo la consapevolezza che ogni passo nel buio può diventare luce se condiviso.