Tutto Tranquillo sul Fronte Occidentale – Recensione del film Netflix

Occidentale
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Tutto Tranquillo sul Fronte Occidentale è il terzo film tratto dal famoso romanzo

Tutto Tranquillo sul Fronte Occidentale è il più famoso romanzo mai scritto sulla Prima Guerra Mondiale, assieme ad Addio Alle Armi di Ernest Hemingway. Ma il lavoro di Erich Maria Remarque presenta la guerra da una prospettiva molto più ampia e desolante, mentre la narrazione di Hemingway si trasforma nel racconto di un percorso di trasformazione personale per il quale il conflitto fa solo da sfondo.

Curiosamente, in quasi cento anni dalla sua pubblicazione, il racconto è stato adatto come film due sole volte: una, celebre, nel 1930 in un lungometraggio diretto da Lewis Milestone che consigliamo assolutamente di recuperare. E una nel 1979 in una versione su CBS, con Ernest Borgnine.

Il confronto si impone fin da subito anche con l’altro famoso film a tema WWI uscito in questi anni: parliamo ovviamente di 1917 di Sam Mendes. Un film quest’ultimo tutto sommato di avventura più che di guerra, che solo parzialmente tiene a descrivere le dinamiche del conflitto per seguire, come in Hemingway, le storie di due personaggi e la loro particolare missione.

Qui, al contrario, le vicende del soldato diciassettenne Paul (la famosa classe del ’99) lo collocano in un contesto spersonalizzante nel quale la guerra lo riduce a un numero al servizio della macchina bellica, niente di più. Come ogni buon film di guerra dovrebbe fare, la storia dimostra l’insensatezza del conflitto e della violenza.

Non solo: vediamo anche come Paul e i suoi compagni, pur partiti entusiasti per il fronte occidentale appunto (cioè, quello francese), vengono demoliti nel corpo e nello spirito senza alcuna crescita personale. Qui i soldati non sono eroi: come nella realtà, sono ragazzi mandati al macello, letteralmente, parte di qualcosa più grande di loro che non capiscono e nemmeno pretendono di capire.

Questo mentre, come viene sottolineato, i potenti decidono le sorti della guerra in stanze lussuose e pasteggiando con luculliani banchetti. I combattenti vengono strappati alle loro vite “normali” e si riorganizzano in una vita che è fatta di cameratismo, paura e desiderio mescolati e perenni, e piccoli, sparuti e inaspettati piaceri, come quando rinvengono del cibo in una trincea francese e subito lo divorano.

Il legame tra i soldati e gli amici, sviluppato in mesi e mesi di combattimenti e traumi condivisi, diventa allora l’unico significato di un’esistenza costantemente in bilico e che sembra non condurre da alcuna parte o verso alcun futuro. In definitiva il film racconta le vicende narrate nel libro, oltre che da una prospettiva tedesca (per la prima volta), anche con estremo realismo e cinismo.

Nel farlo non mitizza né idealizza ma al contrario demolisce la guerra in tutti i suoi aspetti più scabrosi, miseri e grotteschi. Il conflitto non lascia nulla se non distruzione e morte, e chiaramente si percepisce il senso di vuoto dell’enorme sacrificio di una generazione che non riesce a realizzare nulla se non il suo stesso annientamento.

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