11 Capolavori del 1969 da recuperare assolutamente [LISTA]

Il Sessantotto ha toccato tutto il mondo. Soffermiamoci sul 1969 e vediamo 11 film che sono testimoni di tale cambiamento.

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6) Il funerale delle rose – Toshio Matsumoto (1969)

Funeral Parade of Roses Toshio Matsumoto 1969

Il funerale delle rose è uno dei capolavori della new wave giapponese. La trama segue le vicende di un gruppo di giovani appartenenti all’ambiente queer di Shinjuku, uno dei quartieri più iconici di Tokyo. Particolare risalto ha l’intreccio amoroso tra Eddie (Pītā), Leda (Osamu Ogasawara) e Gonda (Yoshio Tsuchiya).

Trattandosi di un film d’avanguardia, però, la linearità del racconto cede il passo alla sperimentazione narrativo-stilistica.

Dal punto di vista narrativo l’opera infrange spesso la finzione con inquadrature al set e interviste al cast; dal punto di vista stilistico, invece, è fatto largo uso del montaggio concettuale o astratto e di vignette e iscrizioni in sostituzione alle battute. Emblematica in tal senso è la scena del litigio tra Eddie e Leda, che raggruppa tutti gli elementi elencati.

La formula dell’intervista serve per affrontare il tema principale del film, ossia l’identità sessuale. Quasi tutto il cast è chiamato a esprimersi sulla propria, così da studiare caso per caso. L’attenzione, l’interesse e il rispetto rivolti a ognuno degli intervistati collocano l’opera anche più avanti del nostro tempo.

Le interviste vengono rivolte anche a un gruppo di giovani intellettuali alle prese con le droghe e con il cinema sperimentale. In una scena possiamo assistere a una proiezione underground realizzata da uno di loro, cui segue un dibattito condito da citazioni ad autori come Jonas Mekas. Il materiale del filmato verrà poi riutilizzato da Matsumoto nel cortometraggio Expansion (1972).

L’ispirazione per la storia principale narrata nel film è l’Edipo re di Pier Paolo Pasolini (1967), che nel 1969 portava in scena Porcile e l’adattamento di un’altra tragedia, la Medea. Perciò, un altro tema caldo del film è lo spaesamento dell’uomo contemporaneo, che, privo di guide e con futuro incerto, vaga senza meta.

Infine, nel film appaiono numerose scene di manifestazioni studentesche e operaie e cortei delle forze dell’ordine. Il contesto storico è messo a nudo da Matsumoto, soprattutto con le dichiarazioni di un manifestante: “quello che conta non è l’ammissione della violenza, ma la progressione della violenza a cui prendi parte e la direzione della stessa: farla cessare o farla durare per sempre“.

L’eredità lasciata dal film sembra essere stata colta già due anni dopo da Stanley Kubrick per la regia di Arancia Meccanica (1971).

7) Su su per la seconda volta vergine – Koji Wakamatsu (1969)

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La liceale diciassettenne Poppo (Mimi Kozakura) viene condotta da alcuni ragazzi sul tetto di un edificio e violentata sotto gli occhi dell’impotente Tsukio (Michio Akiyama). Al risveglio di lei, i due cominciano a parlare e a confidarsi i reciproci drammatici passati.

Su su per la seconda volta vergine appartiene al Pinku Eiga, genere per nulla nobile che però servì da trampolino di lancio per registi come Shunya Itō, Masao Adachi e Kiyoshi Kurosawa (e Wakamatsu stesso).

Il Pinku Eiga, infatti, a fronte di bassi costi di produzione e ridotte tempistiche, cercava il guadagno facile proponendo un discreto numero di scene di nudo e di sesso. Grazie a tale politica, Wakamatsu riuscì a dirigere dodici film nel 1969.

Però, Su su per la seconda volta vergine rappresenta un caso a parte e vanta innumerevoli meriti. Innanzitutto, il film infligge un feroce attacco alla misoginia del Pinku Eiga, che spesso rappresentava la donna umiliata, torturata e sottomessa. Emblematica in tal senso è la scena in cui la protagonista si rivolge alla macchina da presa per un attacco diretto ai fautori del genere.

Inoltre, Poppo, quasi sempre nuda, è simbolo di una purezza contaminata dai molteplici stupri nella finzione e dall’animalesco voyerismo degli spettatori nella realtà. L’opera, infatti, accantona ogni anelito erotico per studiare la dimensione più violenta del sesso, disturbando soprattutto lo spettatore più patriarcale.

Attraverso lo svolgimento del loro rapporto, possiamo identificare i temi proposti dall’opera: sadismo, disagio, nichilismo, rapporto tra generi, vendetta. Poppo, infatti, sentendosi un oggetto alla mercé degli uomini, chiede ripetutamente a Tsukio di ucciderla e non invoca nemmeno aiuto mentre subisce i vari attacchi. Lo stesso faranno gli altri personaggi una volta in pericolo, come se consapevoli dell’inevitabilità del loro destino.

Prima del finale, sullo schermo passano alcune violente immagini del manga Lone Wolf and Cub e diverse foto di Sharon Tate, uccisa proprio nel 1969. Il triste destino del protagonista del manga e l’omicidio dell’attrice sono i simboli scelti da Wakamatsu per il montaggio concettuale prima del drammatico epilogo.

8) Z – L’orgia del potere – Costa-Gravas (1969)

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In un’imprecisata città dell’Europa mediterranea sta per avere luogo un comizio delle forze d’opposizione al regime, tenuto dal “Deputato” (Yves Montand). Durante l’evento, però, il parlamentare perde la vita in seguito a un’aggressione dell’estrema destra, mascherata a causa della numerosa folla e spacciata per incidente stradale. Ma l’impavido giudice istruttore (Jean-Louis Trintignant) vuole vederci chiaro…

L’introduzione, attraverso una metafora, chiarisce il contesto del film: a un apparente convegno sull’agricoltura, alcuni gendarmi discutono su come estirpare la peronospora, malattia delle piante causata dall’attacco di parassiti; appare evidente che, in realtà, essi stiano discutendo su come estirpare il socialismo e il comunismo dal regime.

Il film, infatti, è tratto dall’omonimo romanzo politico di Vasilīs Vasilikos, ispirato a sua volta all’omicidio politico di Gregoris Lambrakis, avvenuto a Salonicco il 27 maggio 1963. Egli era un attivista per la pace, nonché oppositore del governo greco di destra presieduto dal primo ministro Konstantinos Karamanlis.

La tensione aumenta ogni minuto che passa. All’inizio, essa deriva dall’atmosfera calda del comizio, cui partecipano anche le forze di estrema destra, pronte a uccidere il rivale non appena possibile. Poi, invece, si passa all’indagine: lo spettatore sa come sono andati i fatti, si immedesima nel Deputato e reclama giustizia; il potere, però, ha radici ovunque, quindi il buon esito dell’indagine è messo a repentaglio.

Il significato del titolo è spiegato proprio nell’ultima battuta del film. La lettera Z è legata al verbo ζάω (pron. zào), che in greco antico significa “io vivo”, perciò è utilizzata dai sostenitori dell’assassinio del Deputato (e di Lambrakis nella realtà) per affermare che egli “è vivo”. Vivo in quanto non è morta la sua ideologia, vivo perché si faccia luce sulla sua scomparsa.

9) Il colore del melograno – Sergej Iosifovič Paradžanov (1969)

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Il film segue la vita del poeta ashugh (bardo) Sayat-Nova, nato a Tbilisi il 14 giugno 1712 e morto a Haghpat il 22 settembre 1795. Tuttavia non si tratta di un racconto biografico, ma il racconto avviene attraverso le immagini evocate dai componimenti dello scrittore, inframmezzate da didascalie dei suoi versi.

La distribuzione del film fu travagliata. Data la natura poetica e non realista dell’opera, la censura sovietica accusò il film di non educare lo spettatore sulla vita del poeta, perciò chiese di intervenire per apportare dei cambiamenti. In particolare, fu imposto di cambiare il titolo originale, che era Sayat-Nova, di rimuovere qualsiasi riferimento al poeta e di alleggerire la componente religiosa.

Il film venne quindi rinominato Il colore del melograno e uscì in due versioni: una, della durata di 78 minuti e con nuovi titoli astratti per i vari capitoli, uscì in Armenia nell’ottobre del 1969 e poi nell’URSS; una successiva, lunga 72 minuti e con titoli russi, fu diffusa solo nell’URSS nel 1970.

Paradžanov utilizza la camera fissa, non effettuando alcun movimento e, di fatto, riducendo all’estrema sintesi il suo stile di regia. Ciò che importa, infatti, è l’impostazione dell’immagine, adorna di elementi e attentamente ponderata. Gli attori svolgono movimenti essenziali, spesso ripetuti, quasi sempre fissando l’obiettivo. La recitazione è desunta dal teatro sperimentale.

Il montaggio è particolare nella sua semplicità, in quanto si compone quasi solo di alternanza tra campo totale e dettagli o particolari. Capita poi spesso che più inquadrature vengano ripetute più volte di fila, o in maniera identica o con piccole modifiche. L’immagine che abbiamo inserito nell’articolo rappresenta un esempio: restando nella stessa posizione, l’attrice svolge più azioni con elementi diversi, ma in inquadrature divise tra loro.

L’opera è priva di dialoghi. Alla fine del film, però, un uomo, dopo aver esortato Sayat-Nova a cantare, gli chiede di morire. Le didascalie tratte dagli scritti del poeta vengono lette da voci maschili e femminili; i contenuti sono quasi sempre legati a disagio esistenziale e riflessione sulle derive che sta raggiungendo il mondo, dimostrando, quindi, un’attualità straordinaria (ricordiamo che erano gli anni del disincanto sessantottino).

Il simbolismo presente nel film è massiccio e rende l’opera molto ermetica. Ecco due esempi: il colore del melograno è il medesimo della bandiera dell’antico Regno d’Armenia e il succo che fuoriesce dalla rottura del frutto va a formarne i confini su una tela; le lane colorate da alcuni tintori in qualche scena successiva appartengono ai colori della bandiera armena.

Non a caso, il film intende celebrare la sopravvivenza dell’identità armena all’oppressione e alla persecuzione cui è andata incontro lungo tutta la sua storia.

Il film ha avuto molte influenze soprattutto in campo musicale: Madonna ne reinterpretò alcune scene nel video di Bedtime Story (1995); i R.E.M. ne mostrano gli influssi nel video di Losing My Religion (1991); Lady Gaga lo cita nelle coreografie di 911 (2020), in cui si nota anche la locandina; infine, il compositore cileno Nicolás Jaar ne rilasciò una colonna sonora alternativa, titolata Pomegranates (2015), senza però aver acquisito i diritti.