Le migliori Serie Tv e miniserie del decennio

Il decennio è andato e siamo rimasti qui a tirare le somme. Tra i tanti bilanci non potevamo esimerci dal fare quello del mondo della serialità tra serie tv, miniserie e film per la televisione.

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LE MIGLIORI SERIE TV INIZIATE NEL 2010 E CON PIÙ DI UNA STAGIONE

Black Mirror (2011-in corso, Endemol/Netflix)

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Black Mirror è forse una delle serie che meglio rappresenta il decennio appena trascorso. La serie antologica britannica andata in onda a partire dal 2011 e disponibile su Netflix, ha avuto un successo straordinario, gettando una luce sui numerosi “schermi neri” di cui ci circondiamo. Ogni episodio è auto-conclusivo ma legato all’altro dal fil rouge dell’ambientazione in un futuro distopico (ma non irrealizzabile) e dalla presenza ingombrante di tecnologie sempre più avanzate e alienanti. Senza la possibilità di giocare sull’effetto cliffhanger per costringere lo spettatore a vedere l’episodio successivo, gli autori si sono impegnati a rendere ogni singolo episodio travolgente, angosciante e unico; l’effetto è che se ne vuole sempre di più e risulta difficile staccare gli occhi dallo schermo.

Per quanto Black Mirror si ponga come una denuncia dei pro e contro della tecnologia, a ben vedere essa è rappresentata in modo imparziale, non è né positiva né negativa. Si tratta solo di uno strumento nelle nostre mani, un’estensione della nostra umanità/disumanità e che quindi, usata in modo spropositato, diventa pericolosa e alienante. La serie è stata definita cupa e inquietante forse proprio perché ricorda allo spettatore una verità che preferirebbe dimenticare. E cioè che ognuno è responsabile delle proprie azioni. La serie si colloca sì nel futuro, ma parla al nostro più diretto presente, come dimostra il fatto che alcune profezie si siano già avverate.

Black Mirror merita sicuramente la nostra attenzione, non solo per la qualità dei contenuti, confezionati da un abilissimo Charlie Brooker, ma anche per la sperimentazione condotta (in modo più o meno riuscito) in fase di produzione e distribuzione. La serie, di cui sono già state realizzate cinque stagioni, ha prodotto anche un film interattivo (Bandersnatch) e numerosi eventi come Black Game.

A cura di Valentina Giua

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Better Call Saul (2015-in corso, Sony/AMC/Netflix)

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Non era facile replicare il successo leggendario di Breaking Bad, serie assurta a standard qualitativo e metro di paragone per ogni altra opera analoga. Eppure, Vince Gilligan ha tirato fuori dal cappello un altro incantesimo che ci ha riportato con piacere nel suo universo narrativo. Better Call Saul è un prequel nei presupposti, ma si è rivelato essere molto di più che un semplice spin-off. La caratterizzazione di Jimmy McGill è uno straordinario racconto di de-formazione che ci conduce dall’impacciato avvocato penalista al funambolico Saul Goodman. E in questo racconto Breaking Bad non è solo un ricordo dal quale riportare in scena alcuni dei più iconici personaggi, ma anche e soprattutto un riferimento narrativo. Rivivono quindi, attraverso sottili variazioni, alcuni dei motivi fondanti del fratello maggiore di Better Call Saul. Le gelosie e le rivalità lavorative, i complessi legami famigliari che caratterizzarono la storia di Walter White saranno i presupposti del declino inesorabile di Jimmy McGill.

In Better Call Saul però lo scandagliamento della psicologia dei personaggi si spinge molto più in là, costruendo un sistema di figure a tutto tondo ancora più complesso e approfondendo con splendide sotto-trame gli amati e compianti Mike Ehrmantraut e Gustavo Fring. A coronare questo must-see una regia di livello altissimo, che ancora rivisita alcuni degli stilemi di Breaking Bad per costruire poi la sua identità visiva. Ed è di sicuro il suo pregio migliore: pur essendo un’opera inevitabilmente derivativa, Better Call Saul ha una sua personalità unica, che ne fa un’opera assolutamente originale e non una costola di Breaking Bad. Una delle rivelazioni più sorprendenti del decennio. Una sfida stravinta.

A cura di Leonardo Di Nino

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The Americans (2013-2018, Amblin/Fox/FX)

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In sordina, quasi di soppiatto, proprio come i suoi protagonisti, The Americans si è imposta nell’olimpo delle serie tv del decennio (e non solo).

Nonostante una messa in scena ancorata ad un certo approccio televisivo caro alle prime sperimentazioni nel campo, The Americans conquista grazie ad una trama affascinante e ad alcune meravigliose interpretazioni (fenomenale Matthew Rhys). Senza dubbio tra gli show storici più riusciti di sempre, la serie fa della ricostruzione storica il suo punto di forza. Gli ultimi anni della Guerra Fredda sono presentati con una vena profondamente realistica e nonostante alcune trovate apparentemente assurde, lo spettatore non dubita mai della veridicità e della credibilità delle situazioni mostrate.

La contrapposizione tra i due blocchi è dipinta esaurientemente. Tutti gli attori in gioco hanno voce contribuendo a creare un mosaico completo ove ogni tassello rende l’insieme chiaro e imparziale. Se gli Stati Uniti sono la location scelta per narrare le vicende delle due spie sovietiche trapiantate, la Russia (o meglio l’URSS) resta una presenza costante nel tessuto dello show. Lo scontro tra le due culture è forse il vero protagonista riuscendo ad esplicarsi in numerosi modi differenti: dal contesto socioculturale a quello politico passando per il piccolo mondo quotidiano.

Altra nota di merito va trovata nel profondo trasformismo che permea The Americans. Tale aspetto trova nelle interpretazioni il mezzo perfetto per imporsi. I protagonisti affascinano e sorprendono cambiando i connotati, i caratteri e le posture donando delle performance attoriali poliedriche e rafforzando il carattere ambiguo della serie. Il frenetico valzer di volti e coperture viene reso più coinvolgente dalle trovate narrative, che fanno di The Americans una delle serie action più interessanti del panorama televisivo.

Probabilmente, The Americans è la serie meno nota tra quelle poste in classifica. Vi consigliamo caldamente di recuperarla. Fidatevi, avrete un finale da Emmy

A cura di Luca Varriale

Westworld (2016-in corso, HBO/Sky Atlantic)

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Nato come remake del film del 1973 Il Mondo dei Robot, scritto e diretto da Michael Crichton, Westworld è la punta di diamante su cui ha scelto di scommettere Jonathan Nolan – fratello del più famoso Christopher e sceneggiatore di molti suoi film. Westworld è un racconto che segue le traiettorie di un mondo distopico, una realtà altra in cui le dimensioni temporali sembrano voler danzare sulla linea del caos, spingendo lo spettatore a immergersi totalmente in un universo dove la componente più umana è quella dei robot e della meccanica.

Westworld, dunque, è un piccolo capolavoro che al cast eccezionale e alla fotografia impeccabile, controbilancia una riflessione mai troppo celata sulla realtà e su quali siano gli elementi che servono a definire il concetto di umanità. Un concetto sempre più astratto in un mondo dove le persone possono comprare le proprie perversioni e seguire gli istinti più bassi delle proprie fantasie. Ed è su questa dicotomia tra umano e robotico che Westworld innesta il proprio cuore pulsante, fatto di dialoghi brillanti e profondi, dove da una parte troviamo degli esseri umani annoiati dalla propria quotidianità limitata e dall’altra ci sono i cyborg creati per provare emozioni e che non sono consapevoli di essere meri strumenti nelle mani di coloro che pagano per decidere il loro destino. Tra questi due poli, naturalmente, c’è l’ombra di un Anthony Hopkins che gioca a fare Dio ma che sembra più una diabolica guida con il compito di guidare lo spettatore in quelli che sembrano gironi infernali impregnati della stessa tecnologia divoratrice che si è vista negli episodi che compongono l’antologia di Black Mirror. Nel riflettere sul senso di umano e sulla necessità di essere liberi – tema fondamentale per il mondo degli androidi – Westworld affascina anche grazie alla bravura degli attori chiamati in causa, tra cui spiccano Evan Rachel Wood e Ed Harris.

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A cura di Erika Pomella

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Peaky Blinders (2013-in corso, BBC/Netflix)

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Un posto nella nostra classifica anche per la serie ideata e creata da Steven Knight. Ciò che accomuna la serie targata BBC e Stranger Things è la grande capacità di ricreare il clima e l’ambientazione entro cui si svolgono i fatti raccontati. Nel caso della serie britannica stiamo parlando dell’Inghilterra degli anni ’10 e ’20, perfettamente messa a fuoco grazie ad accorgimenti legati alle location, agli abiti di scena, alle acconciature e così via.

Ciò che, tuttavia, ha fatto sì che negli anni Peaky Blinders rimanesse una serie di altissima pregevolezza è indubbiamente la scelta di un cast di altissimo livello. Partendo dalla punta di diamante, Cillian Murphy ci ha regalato uno dei migliori personaggi di questo decennio, grazie all’immenso lavoro fatto sul suo iconico e tormentato Thomas Shelby.

Tuttavia, come detto, il protagonista rappresenta soltanto l’apice di una piramide costituita da elementi scelti ad hoc per il proprio ruolo. Negli anni abbiamo visto entrare a far parte del progetto attori del calibro di Adrien Brody, Tom Hardy, Aidan Gillen, Sam Neill, Charlotte Riley, Sam Claflin, che hanno puntellato con la loro enorme qualità lo zoccolo duro costituito dagli strepitosi interpreti della famiglia Shelby.

La quinta stagione della celebre serie ha rappresentato l’ennesima conferma di un prodotto ormai conforme ad importanti standard cinematografici piuttosto che a quelli seriali, nonostante questi si siano ormai alzati vertiginosamente. Steven Knight ha già finito il processo di scrittura della sesta stagione (qui le sue dichiarazioni), che quindi potrebbe arrivare sui nostri schermi nel 2021. Pronti?

A cura di Alessio Corsaro

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Stranger Things (2016-in corso, 21 Laps Entertainment/Netflix)

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Non può che meritare un posto nella nostra top ten la serie che ha contribuito a lanciare Netflix nella stratosfera dello streaming online. Stiamo parlando proprio di Stranger Things, la serie ideata dai Duffer Brothers che narra le paranormali vicende di un gruppo di strambi ragazzini provenienti dalla Hawkins degli anni ’80.

Forse coadiuvata dal fatto di essere stata uno dei primissimi prodotti Netflix a conoscere un successo globale, Stranger Things ha influenzato in maniera importante il mondo seriale con i propri stilemi. Dalla sua messa in onda sono state molte le serie che hanno deciso di puntare su un’ambientazione vintage, facendo tornare in voga gli ’80, e di mettere al centro delle vicende gruppi di ragazzini sui-generis.

Il successo ottenuto dalla serie in questi anni è dovuto principalmente alla capacità di ricostruire atmosfere e passioni ormai lontane, attraverso dei continui riferimenti e omaggi alla musica, al cinema, l’abbigliamento e agli oggetti più semplici della vita quotidiana degli anni ’80. Inoltre i Duffer Brothers hanno mostrato un’ottima capacità nel fornire una caratterizzazione credibile e dinamica ai propri personaggi, regalandoci, ad esempio, un inaspettato papà Steve.

Dopo una prima stagione che ha fatto impazzire buona parte dei nerd e dei nostalgici dei tempi passati disseminati in tutto il mondo, la serie ha conosciuto una leggere flessione con la seconda stagione, riconfermandosi ad alti livelli con la terza ed ultima stagione, fino ad ora, distribuita il 4 Luglio 2019, giorno della festa dell’indipendenza americana.

Proprio l’epilogo di quest’ultimo ciclo di episodi ha lasciato spettatori e appassionati della serie con il fiato sospeso, per via di un terribile cliffahnger con il quale dovremo convivere fino alla messa in onda della quarta stagione. A questo punto non ci resta altro che attendere il ritorno dei nostri amati ragazzini, questa volta non più ad Hawkins.

A cura di Alessio Corsaro

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Mr. Robot (2015-2019, Anonymous Content/USA Network/Premium)

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Protagonista dell’ultimo lustro del decennio, Mr. Robot, in questo scampolo finale del 2019, si è confermata una serie di altissimo profilo. Nonostante la sua intrinseca natura di prodotto di nicchia, la serie di Sam Esmail è sicuramente da annoverare tra i migliori show tv di sempre, sia per quanto riguarda il comparto tecnico che quello narrativo. Le peripezie, psicologiche e non, di Elliot Alderson (Rami Malek), hacker affetto da un disturbo della personalità e alla ricerca di una rivoluzione sociale e politica, hanno incantato milioni di spettatori in tutto il mondo soprattutto grazie ad una messa in scena innovativa che ha pochi eguali nel mondo del piccolo schermo.

Fin dagli esordi, l’obiettivo degli autori è stato quello di “comprimere” un prodotto cinematografico nel piccolo schermo, obiettivo coronato da alcune puntate che omaggiano direttamente il mondo della settima arte. La realizzazione tecnica ha poi trovato nuova forza nel comparto narrativo, in cui, pur soffrendo, spesso, della complessità dell’argomento (l’informatica) è riuscito ad appassionare il pubblico attraverso la caratterizzazione dei propri personaggi. Nonostante le difficoltà legate ad alcuni passaggi ostici, la narrazione riesce ad avere un ritmo calzante e coerente approdando ad un finale che non si rischia a definirlo perfetto. Pertanto, con sicurezza possiamo definire Mr. Robot una serie che ha il merito di aver alzato l’asticella del mondo della televisione e siamo sicuri che la sua lezione farà scuola per molti anni avvenire.

A cura Luca Varriale

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Mindhunter (2017-in corso, Denver e Delilah Productions/Netflix)

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Altra serie che ha contribuito al miglioramento qualitativo del format è senz’altro Mindhunter. Lo show creato e prodotto da David Fincher e che narra la storia vera degli agenti dell’FBI pionieri della criminologia dedicata ai serial killer ha avuto il merito di rafforzare il linguaggio cinematografico dell’ottava arte. La potenza narrativa, inoltre, deve la sua forza alla fedele trasposizione degli eventi reali che racconta ponendo un coinvolgimento totale nello spettatore, che è costantemente stimolato alla ricerca. Possiamo quindi dire che un episodio di Mindhunter non si esaurisce alla fine della visione ma perdura anche dopo aver spento la tv attraverso una costante documentazione a cui il pubblico è naturalmente portato dalla meravigliosa messa in opera della serie.

A netto di qualche passaggio romanzato per amor di fiction, la serie è un compendio psicologico e sociale sulle menti dei serial killer la cui resa tecnica e artistica rafforza ulteriormente un argomento che già di per sé ha una fascino a cui è facile cedere. La ricostruzione storica, il trucco che trasforma gli attori nei loro corrispettivi reali, l’uso della camera e delle luci fanno di Mindhunter un prodotto profondamente fincheriano, un Zodiac televisivo perfettamente convertito al contesto da piccolo schermo. In questi tempi, ove il topos del serial killer è diventato ancora più caro alle arti della rappresentazione, Mindhunter ha sicuramente un posto centrale. Il genere Crime, da sempre molto caro all’ottava arte quanto alla settima, trova nella serie un nuovo “Sole” dove il futuro del genere ruoterà ancora a lungo assorbendone le lezioni; narrative, tecniche e artistiche in generale.

A cura di Luca Varriale

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Game of Thrones (2011-2019, HBO/Sky Atlantic)

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La serie che ha marchiato a fuoco il decennio appena trascorso. Game of Thrones, con buona pace dei suoi detrattori, ha conosciuto negli anni un successo planetario ed è la serie che ha macinato record su record, sia in termini commerciali che di riconoscimenti ufficiali.

La fama riscossa dalla serie sin dal suo esordio nel 2011 è stata indubbiamente meritata per molteplici motivi. Innanzitutto GOT ha trasposto sul piccolo schermo le meravigliose storie narrate da George R.R. Martin nelle sue Cronache del ghiaccio e del fuoco, una delle miglior saghe fantasy scritte a cavallo tra lo scorso millennio e il nostro.

In secondo luogo, la HBO ha avuto l’ardore di narrare attraverso uno show televisivo una saga epica, con obiettivi via via sempre più ambiziosi grazie ad un comparto produttivo senza precedenti nel mondo del piccolo schermo. Dai dubbi sul pilot della prima stagione si è arrivati così all’impressionante record dei 19.3 milioni di telespettatori in occasione del finale dell’ultima stagione, The Iron Throne.

Tuttavia l’epica e in generale la dimensione più propriamente sublime della serie hanno fatto da spettacolare cornice al vero cuore pulsante degli avvenimenti, ossia la dimensione narrativa. Game of Thrones è riuscita a raccontare le proprie storie come poche serie erano riuscite a fare prima d’ora.

E’ così che draghi, temibili nemici non-morti, streghe sacerdotesse ecc. hanno costituito una base fantasy nella quale innestare i racconti sulle lotte per il potere e le congiure di palazzo, l’arte della politica e il vigore della guerra, la bellezza dell’amore e la sua fatale ingannevolezza, la meraviglia di mondi lontani e sconosciuti.

Game of Thrones ci ha fatto sperare nel futuro dei personaggi ai quali ci siamo morbosamente attaccati, ci ha fatto sognare per poi farci disperare dopo aver distrutto amaramente ogni nostro desiderio, ci ha fatto arrabbiare, cospirare, speculare, meravigliare e chi più ne ha più ne metta. Proprio per questo, a prescindere da una stagione conclusiva che ha lasciato non pochi dubbi e risentimenti su come sarebbe potuta andare, Game of Thrones è la serie di questo decennio ed è destinata a far parlare di sé ancora a lungo.

A cura di Alessio Corsaro

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The Leftovers (2014-2017, HBO/Sky Atlantic)

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Ci sono voluti anni ma alla fine The Leftovers ha avuto la considerazione che merita. Il dramma soprannaturale di Damon Lindelof ha pagato per lunghissimo tempo la propria condanna strutturale: essere un prodotto atipico e di difficile fruizione. Pian piano, però, come vi avevamo anticipato in una delle nostre recensioni (che potete trovare a fine trafiletto), la serie ha trovato il proprio posto nel cuore del pubblico e nella penna dei critici. Ci vuole pazienza e tempo prima di poter assimilare totalmente The Leftovers, bisogna stare al gioco degli autori, scendere a patti con la caratteristica principale dello show: l’assenza di una vera e propria trama.

Quando si inizia a guardare la serie ci si aspetta che il tutto convogli in un contesto soprannaturale, crediamo che l’improvvisa sparizione del due percento della popolazione mondiale diventi il fulcro centrale della storia e che il viaggio ci porti poi alla risoluzione del mistero. Niente di più sbagliato. The Leftovers vira in una direzione lontana dal fantastico e immerge le proprie “mani” nella realtà più cruda. Una trama generale classica, strutturata, con un inizio, svolgimento e conclusione non viene creata ma accennata e spezzettata al servizio di piccole storie, storie personali che vanno a comporre il grande mosaico. La domanda che si pone The Leftovers non è che fine hanno fatto le persone svanite ma come reagiscono gli esseri umani dinanzi all’ineluttabilità della tragedia, come si comportano dinanzi al vuoto di un baratro.

In questo modo la trama di The Leftovers diventa l’essere umano, o meglio, la sua mente. Da dove viene il dolore? Come ci si convive? È possibile superarlo? E ancora: Chi è l’altro? Il mio specchio o un mio avversario? Convivere o lottare? Tollerare o respingere? Accettare e capire la morte oppure allontanarla con uno sterile rifiuto? Ecco, The Leftovers pone domande e offre poche risposte, fa del viaggio la meta stessa. Un viaggio che può risolversi in un’unica parola: confronto. I personaggi si confrontano, lo spettatore si confronta con se stesso, gli esseri umani scendono a patti con la propria difficile esistenza fino ad accettare il principio cardine della vita stessa: il mistero

Tutto ruota intorno a questo architrave concettuale. La messa in scena è al servizio dell’intimismo: primi piani; scene che si concentrano su singoli personaggi o situazioni; speculazioni esistenziali e filosofiche. Fotografia fredda o calda a seconda delle fasi del lutto (parallelismo che abbiamo posto nella nostra prima recensione) che i personaggi stanno affrontando; cambi repentini di “umore” sia della camera che della sceneggiatura. The Leftovers è un caleidoscopio, sia sul piano tecnico che narrativo, della natura umana, che rende quest’ultima, quando è messa a dura prova da eventi tragici, il principale oggetto di osservazione. The Leftovers, quindi, è introspezione più che storia, è analisi più che narrativa. Straziante e magnifico, proprio come le musiche di Max Richter.

A cura di Luca Varriale

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CONSIGLI EXTRA: ATLANTA, THE KNICKS, FLEABAG, DARK, FARGO, PENNY DREADFUL, THE NEWSROOM, SHERLOCK, DAREDEVIL, AMERICAN HORROR STORY, THIS IS US,
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MENZIONE D’ONORE

Twin Peaks: Il Ritorno (2017)

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«Quella gomma che vi piaceva tanto sta tornando di moda! #damngoodcoffee». Da circa otto anni David Lynch non fa film quando, con un tweet criptico e allusivo, instilla, nella mente dei suoi fan, il dubbio e la speranza di un revival di Twin Peaks. E alla fine il cult anni ’90 torna davvero in tv, venticinque anni dopo, così come aveva promesso Laura Palmer all’agente Cooper: «Ci rivedremo tra venticinque anni». La serie va in onda il 21 maggio 2017. Ma in realtà, Twin Peaks: Il Ritorno ha ben poco del revival ed è qualcosa di totalmente nuovo e altro dall’originale. La sperimentazione estrema che Lynch ha condotto spinge a considerare questa stagione come un’opera a sé e merita per questo una menzione speciale tra le migliori serie tv del decennio, nonostante sia nata negli anni ’90.

La prima parte di Twin Peaks, andata in onda nel 1990-91, è stata così significativa, da essere considerata oggi una delle serie più influenti di sempre, che spinge a dividere la storia della serialità visiva in un prima e dopo Twin Peaks. E Twin Peaks: Il Ritorno, sembra reggere il confronto, tanto che i Cahiers du cinéma l’hanno eletta miglior film del decennio. Infatti, nonostante sia composta da 18 episodi, il regista considera Twin Peaks: Il Ritorno un tutto unico, un film di quasi 18 ore, diviso in altrettante parti. Ma lo scardinamento dell’ordine precostituito non avviene solo attraverso la sceneggiatura. La visione della serie è un’esperienza spiazzante e unica. A partire dal contraddittorio ordine temporale, ai dialoghi e azioni no-sense, all’affollarsi di storie e nuovi personaggi; i nessi causa-effetto si fanno sempre più sfumati, come in una visione onirica che raggiunge l’apice in quel capolavoro che è l’ottava parte. In Twin Peaks: Il Ritorno David Lynch ha messo in scena l’inimmaginabile.

A cura di Valentina Giua

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